lunedì 27 maggio 2013

STORIA DI UN PARADISO PERDUTO

Eccomi con un nuovo libro, fresco fresco di stampa. Tutta un'altra storia dal primo, ma ci ho messo comunque cuore e - questa volta - anche passione. E' la storia di una donna, incapace di liberarsi da un amore malato, per sua stessa fragilità e per amore di un sogno che mano a mano le si è sgretolato ai piedi sotto il peso di tante, troppe bugie...

QUANDO APRIRE GLI OCCHI FA PIU' MALE CHE NEGARE IL VERO CHE ABBIAMO DAVANTI ...

Aveva fatto fatica, ma alla fine c'era riuscita. Emma lavorava come fotografa per una rivista nazionale di viaggi. Vita da freelance sempre in movimento la sua, che si era conquistata a suon di gomitate, contro la sua indole e contro ogni ostacolo che amici e parenti avevano cercato di mettere in mezzo tra lei e il suo obbiettivo. Emma lo aveva conosciuto un giorno come tanti, per strada, in mezzo ad una folla come altre. Era bastato, perché nell'istante in cui lui le aveva posato addosso i suoi occhi, lei era stata sua. Un giorno aveva provato a digli addio, dando fiducia a quel brivido inspiegabile di paura che le correva addosso mescolato al piacere. Il profumo della terra d'Africa che emanava la sua pelle e le voci dell'aldilà che evocavano i suoi sguardi l'attraevano e la inquietavano al tempo stesso.

I "Maschere" Ed. Arpeggio 2013, è disponibile. Lo si può acquistare on line al sito dell'editore (www.arpeggiolibero.it) o in quelli di Ibs, Dea Store o Immondadori. Astenersi invece da Amazon!!! Si può ordinare anche nelle librerie.

mercoledì 1 febbraio 2012


Per loro tu non avresti dovuto esserci. Per loro tu eri il giusto riscatto per la vita che mi hanno salvata.Per loro, piccolo mio, tu non eri il più urgente dei problemi. 
Tu sei il frutto di un cinquanta percento di probabilità che tutto andasse bene, sei il frutto del mio naturale desiderio di riuscire a stringerti tra le braccia. Tua madre, figlio mio, ha avuto il cancro. Aveva 29 anni. (Dedica in “Mi riprendo il biglietto. Un nuovo cielo dopo la chemio)

 
Me ne sono accorta solo ieri sera. Dopo tanti anni. E’ una brutta eredità quella che ho scelto di lasciare a mio figlio o a mia figlia che sarà. Io il cancro l’ho avuto, nel 2004, ma oggi non ce l’ho più e allora perché, mi sono per la prima volta chiesta, continua la mia mente a ragionare come se “lui” fosse qui? Come se fosse la parte più importante dei miei quasi 37 anni di vita? Eppure “lui” se né preso solo uno di anno, dalla diagnosi, alla cura fino all’intervento. Allora perché dire a mio figlio o figlia che sarà: “Tua madre ha avuto il cancro”, perché farlo con quella arroganza – o forse è paura? - di chi ancora veste la veste del malato, seppure ex, per darsi un’importanza? Non sono dura con me stessa, tutt’altro. Ieri sera quando d’un tratto questo pensiero mi è assalito e ho sentito che ero sulla strada giusta, ho provato tenerezza e comprensione per me, perché sono anche fragile, spesso. No, non sono troppo critica, nemmeno cinica, ma solo consapevole finalmente che con il cancro ho ipotecato il mio futuro. Sbagliando. Seppure forte, seppure positiva, seppure ironica a volte su ciò che mi è capitato io con il cancro ho voluto viverci a lungo, più a lungo del tempo in cui lui ha sostato nel mio corpo, nel mio seno. Perché la malattia me la sono portata nella mente, e nella mente mi si è creata un’immagine di me ex malata, ex resuscitata, ex…dimenticando che prima e dopo il cancro c’ero e ci sono sempre io. Che brutta cosa che stavo per fare. A mia figlia o figlio che sarà stavo per dire, nero su bianco, ecco, leggi, questa è tua madre, grazie al cancro. No, giusto sarebbe dire: “ Anche questa è stata tua madre, mentre aveva il cancro”. Suona meglio, no? Ha meno il tono di una sentenza e più la morbidezza della vita che ti fa essere tante cose e ti fa vivere ogni giorno in modo diverso. Così mentre il mio corpo, assieme alla mia quotidianità e ai miei successi ed insuccessi avanzavano, dopo il cancro, la mia mente, la mia visione di me restava ancora ancorata ad esso. Come avessi un’etichetta appiccicata addosso – l’ho pure scritto nel mio libro – chiamata cancro: chi ce l’ha ancora, chi ce l’ha avuto, chi è morto a causa sua. Per la gente siamo quelli del cancro: eppure noi siamo anche altro. Quanti raffreddori una persona si prende nell’arco di una vita e non viene riconosciuta solo per questo? Ci sono etichette che rendono facile l’identificazione, universale il linguaggio, veloce la comprensione: è quella che ha avuto il cancro; è quella che si è separata; è quella che è stata tradita; è quella che è fallita etc… (Magari di etichette ce ne sono pure di positive, ma al momento, chiedo venia, non me ne sovvengono). Al là di tutto, se penso a cosa dire a mio figlio e figlia che sarà sorrido, oggi, perché non saprei come descrivermi. Fino a ieri ero solo quello, oggi capisco che sono tante cose e tante esperienze, sentimenti, emozioni, pensieri …che cambiano e che per conoscerli devono essere solo vissuti. Penso che a mio figlio o figlia, oppure, chissà magari anche ad entrambi in un tempo solo sarà più giusto dire: “Ecco, leggi, qui c’è tua madre a 29 anni. Ma la persona che  fino ad oggi è diventata non solamente grazie all’esperienza con la malattia, io te la voglio far conoscere di persona. Giorno dopo giorno, mentre cresci”.

martedì 29 marzo 2011

Donna per scelta


La prima volta in cui mi sono sentita orgogliosa di essere donna è stato alcuni anni fa, in occasione di un convegno organizzato da un noto ospedale italiano e al quale partecipavano centinaia di donne guarite dalla malattia. La forza che sprigionava la presenza di tutte loro arrivava fino allo stomaco, perché era dolce, materna, femminile. C’era una grande dignità nel loro dolore. Ricordo che in quel momento mi sono riaffiorate alla mente le parole che mia madre mi aveva sempre detto, senza che il loro senso mi fosse chiaro: “Una donna crea e distrugge una famiglia”. Oggi penso che una donna può fare lo stesso con una società. Nulla è cambiato rispetto a millenni fa: dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Oggi però questa donna ha la possibilità di non stare più all’ombra di nessuno, se lo desidera, ed è qui che essere donna diventa difficile, oggi. Ed è qui che è necessario che la donna smetta di dare le colpe all’uomo, perché non c’è più nulla dietro al quale può nascondersi. Oggi libertà significa scelta. Le possibilità si moltiplicano, non c’è più un unico solco già segnato dalle nostre nonne e madri, sicuro, certo e protetto da regole tramandate. Oggi la donna in potenza può fare tutto, nella realtà meno del passato perché per quel tutto deve lottare il doppio e troppo spesso diventa più comodo e facile imboccare la via più corta. Nulla è cambiato rispetto al passato: l’uomo continua ad usare il sesso, il denaro e il potere per ribadire la sua superiorità e la donna risponde con il suo corpo e i suoi sguardi per ottenere lo stesso. Un tempo si faceva nell’ombra, oggi alla luce del sole e ciò fa una grande differenza perché le proporzioni tra lecito e non lecito si capovolgono. L’eccezione di un tempo diventa la regola di oggi e la donna rischia di distruggere il suo enorme potenziale. Per scelta. So che ad ogni adulto che si forma un giovane si sentirà dire: “Ai miei tempi era meglio”. Il nostro però è un tempo di transizione e sono certa che le donne della mia età, le trentenni di oggi, condividano la sensazione di essere le ultime e per questo di avere una grande responsabilità di fronte alle proprie figlie. Abbiamo ancora le nostre madri a ricordarci il rispetto per se stesse e il dovere di pretenderlo dagli altri. Abbiamo l’era moderna, tecnologica e globale, ad aprirci possibilità di realizzazione che loro, le nostre madri, ancora non avevano. La sfida è non perdersi di vista e trasmettere con il nostro comportamento quotidiano a chi donna ancora non è il messaggio che arrivare in alto si po’, con pazienza, forza e dolcezza al tempo stesso. Magari facendo loro capire che a volte poi l’alto è solo una questione di prospettive e che c’è ancora una grande fetta di società sana che vuole e che sa andare al di là del corpo e del vestito. Basta scegliere da che parte stare.       

lunedì 7 febbraio 2011

Mi interrogo ...

E’ la vita, quella frenetica ed impegnativa che osservavo oramai sei anni fa dalla finestra di casa nell’attesa che fosse nuovamente la mia vita, che oggi che ci sono nuovamente dentro mi soffoca e mi confonde. Eppure ha cose che all’epoca, con un cancro in corpo, non avevo. Eppure proprio quelle stesse cose mi distraggono dalla vita vera che all’epoca mi sentivo pulsare in petto, perché mi impediscono il silenzio e la quiete del corpo e della mente. In questi giorni mi preparo all’ennesima serata di presentazione del mio libro, l’unico che io abbia fino ad oggi scritto, e mi interrogo. Da sei anni non ho addosso il cancro, da tre parlo del cancro … più passa il tempo più le sensazioni si allontanano e resta la paura che si nasconde dietro alla voglia di non parlarne più, di parlare di altro, di qualcosa di diverso. Una paura che però non mi concede la leggerezza che servirebbe per farlo davvero: e così mi sento stagnare come in un limbo, senza colpe ma anche senza merito. E’ la paura che tutto ritorni, ma è per paradosso anche la paura di vivere finalmente e davvero. Quasi che, a lasciare andare il passato, a non tenerlo più sotto controllo, esso ritornasse a colpirmi alle spalle, a punirmi. Ma allora se questa è paura perché parlarne ancora con la presunzione di essere di aiuto?Chiudere o proseguire, mi impongo, ma nel mezzo a tenermi bloccata è la sensazione di tradire. Tradire chi come me all’epoca stava male, chi come me all’epoca aveva necessità di non sentirsi l’unico, chi come me all’epoca aveva bisogno di credere che tutto sarebbe passato. Scrivendo ho preso un impegno, ed oggi che non me la sento più come prima mi sembra di venirne meno. Mi sto preparando alla serata e mi chiedo che cosa potrò ancora dire di quell’anno trascorso a superare l’ostacolo della malattia. Vorrei lasciare parlare le mie pagine: là c’è ancora quella giovane donna che poteva capire chi oggi sta male a causa di una brutta diagnosi. Là dentro c’è tutta l’autenticità del sangue che mi pulsava in vena, mescolato al rosso colore della chemio. Dolore? Paura? Smarrimento? Rabbia? Tristezza? Confusione? Sì le conosco ancora, una ad una queste emozioni: ma oggi sono diverse, oggi non posso più attribuirle al cancro, non solo ad esso per lo meno. Lo dico per onestà: ho imparato tanto da quanto mi è successo, ma è anche questa una lezione che va ripetuta ogni giorno perché resti davvero. Le tabelline, ai tempi della scuola, erano per me bambina pane quotidiano: le recitavo con la convinzione che fossero verità assoluta, non le ho mai messe in discussione. Oggi non le ho scordate, ma a suon di non ripeterle più e di usare computer e calcolatrici nel recitarle, ogni tanto, mi capita di inciampare in un dubbio. Allo stesso modo: posso parlare ancora di dolore, di paura e via dicendo, ma oggi sono emozioni diverse. Oggi è il dopo cancro e il dubbio che l’ordine o la ragione delle cose non sia così scontato, né automatico mi impone una pausa. Oggi c’è il dolore di un ingiustizia, la paura di un ritorno, lo smarrimento di un non sapere ciò che ha davvero valore, la rabbia di non poter più cancellare questo marchio, la tristezza di avere forse perso qualcosa e la confusione. Tanta confusione. Perché dopo il cancro davvero nulla è stato più come prima del cancro, ma senza di lui il destino oggi diventa una scelta.

lunedì 15 marzo 2010

Stella cadente...

Mari l'ho cosciuta qualche tempo fa ad una presentazione del mio libro. Era così giovane, così timida, che non capii perchè si trovasse proprio lì, quella sera. Si nascondeva quasi dietro alle parole di Fabio. Non capii, non mi dissero chi erano. Non seppi chi era lui, ancora meno chi fosse lei. Giorni dopo, la mail di Fabio, e finalmente, giorni e ancora giorni dopo lei, Mari ...


"Guardo il cielo, è pieno di stelle. Come ogni volta che lo osservo, mi dà un senso di libertà, quella che io al momento non potevo avere…e questa volta non mi affascinava più così tanto, non mi trasportava lassù tra le stelle. Io, che combattevo contro un pensiero reale, fisso a terra con forti radici, che mi impediva di sognare, di guardare a un futuro lontano, perché qualcuno poche ore prima mi aveva improvvisamente accorciato la vita. Fino a pochi giorni prima, guardavo con il naso all’insù quello spettacolo e pensavo a quale desiderio esprimere nel caso avessi visto una stella cadente, più per gioco che per reale credenza. Ci sono i piccoli desideri di ogni giorno e ci sono i grandi desideri di tutta una vita,che ti aiutano a dare un ordine alla tua esistenza. Se i desideri sono un "tendere verso" la propria stella,allora il primo dei desideri dovrebbe essere qualcosa di davvero speciale, per cui valga la pena spenderci tutte le energie...Pensavo che un desiderio così non fosse mica facile da trovare! Eppure, questa volta, l’avevo trovato! Si faceva sentire forte dentro di me: volevo continuare a vivere! I primi giorni imbambolata a guardare il soffitto lasciavo scorrere su di me tutte le parole che sentivo dai medici e dagli infermieri, quasi pensando che in tal modo, quel brutto mostro non si sarebbe insediato con forza nel mio corpo. Era tutto così tremendamente difficile! Tutti quei piccoli gesti, che erano il vivere quotidiano, diventavano un “qualcosa” che mi richiedeva uno sforzo immenso, un nuovo compagno, che sarà purtroppo inseparabile, era entrato nella mia vita: il dolore.
Un mostro che si era rubato la mia gioia, il rumore della mia risata, e in cambio mi aveva reso silenzio, mi aveva reso pensieri martellanti come ossessioni, che non andavano via. Dovevo concentrarmi su quel dolore, sentirlo tutto. E si piange, le lacrime, quanto piangere, tutte le lacrime del mondo. Poi, un giorno, quasi come una ribellione, sento dentro di me il desiderio di lottare, di provare a vincere questa battaglia, voglio farcela! E così, piano a piano, anche con l’aiuto delle persone che mi stanno accanto, inizia la risalita. Non sono ancora arrivata al traguardo, però certamente la mia anima e il mio cuore sorridono perché mi accorgo di ogni piccolo miracolo che mi accade attorno e gioisco di ogni singolo passo che riesco a compiere! A presto, Mari"

sabato 23 gennaio 2010

Milena, Ospedaletto ti aspetta!



Ce lo immaginavamo così, esattamente così io e la mia amica Lucia mentre lo aspettavamo al parcheggio del municipio di Ospedaletto Euganeo, due ore prima della serata di presentazione del mio libro. Per me era solamente una firma dentro un gran numero di e mail, quelle che io e lui ci eravamo scambiate nell’arco di quasi un anno, tutte con la promessa di organizzare qualcosa insieme a Ospedaletto. Poi, alcuni giorni fa , poco prima della data fatidica, Francesco era diventato per me una voce al telefonino…ma ancora niente di più di ciò. Arrivate al parcheggio, Francesco ci è apparso come un amico di sempre, di quelli che ti viene ad accogliere dopo mesi che non vi vedete, che ha tante cose da raccontarti, che ti aspetta, entusiasta di mostrarti la sua Ospedaletto Euganeo, in provincia di Padova, a pochi chilometri da Este…a poco più di due ore dalla mia Pordenone. Francesco ed io non eravamo altro che una firma in una mail, lui, e un racconto di una parentesi di vita scritta in 130 pagine, io. Eppure c’era una energia talmente forte nelle sue mail! Francesco ci è apparso così, l’altra sera, a me e a Lucia che lo avevamo raggiunto a casa sua: con il suo taglio di capelli un po’ lungo…(perchè a lui dal parrucchiere piace andare tre volte l’anno, e il prossimo appuntamento è quello di febbraio)… con il sorriso che, poi scoprimmo, non lo abbandona mai… con quell’accento orgogliosamente veneto che ti fa sentire a casa, amico, di famiglia…come una pacca sulla spalla, un pizzico sulle guance, di chi si è guadagnato la tua confidenza. Francesco è così: autentico e genuino come la gente che l’altra sera mi ha accolta per ascoltarmi raccontare la mia storia. Francesco mi ha fatto un grande regalo. Non è per il numeroso pubblico, non è per il racconto di me, non è per … è stato un regalo l’abbraccio che si è aperto per me a Ospedaletto Euganeo. L’abbraccio di Francesco, l’abbraccio di Alberto… l’altro regalo, inaspettato. Musica, quella del suo violino, che non avrei mai sperato di meritare… l’ho lasciata entrare nelle vene ad ogni pausa del mio racconto, mentre il pubblico era assorbito da un buio teatrale e sul palco a proteggermi e a farmi sentire a casa c’erano Francesco, Alberto e ..Matteo. Diociott’anni di lui eppure lo stesso abbraccio degli altri. La musica di Alberto e del suo violino mi ha emozionato, di gioia! No, non è stato per i numeri del pubblico, non è stato per l’interesse delle domande, non è stato per l’internazionalità dell’arte di Alberto…è stato per l’umanità di tutti che ci ha accolte e che ci ha fatto ricordare che, a due ore da casa nostra, dove nessuno ci può conoscere, possiamo trovare gente genuina, attaccata ai valori veri della vita, impegnata a favore della sua gente, appassionata per la sua arte… questa volta non è stato merito del cancro e delle emozioni che la mia testimonianza a volte sa evocare…questa volta è stato per l’amore che gli altri hanno per la vita: è stata questa semplice, eppure rara, equazione a dare a me emozioni preziose…”nel donare sta il segreto del ricevere”. Grazie Francesco, Grazie Alberto…Grazie Ospedaletto Euganeo.



martedì 17 novembre 2009

Ti aspetto....


Non avrei mai voluto scrivere per questo, ma come si fa a dire “ciao” a qualcuno che non ti può più sentire? Lo si dice lasciando parlare il cuore e guardando le stelle, ma io ho bisogno di dirlo più forte questo” ciao” e di dire anche “grazie” e dire anche “a presto”. Perché avrei dovuto farlo giorni fa, e adesso non posso più. Perchè sono certa, o almeno lo spero con tutto il cuore, che ci sarà un giorno in cui aprirò la porta di casa e ti farò entrare. Girerai per le poche stanze del mio nido che tu non hai ancora visto e ti mostrerò come l’ho voluto arredare, i colori che ho scelto, i profumi che lo riempiono. Ti mostrerò quel “nuovo cielo” che qui ho trovato e che tu avresti saputo capire ed apprezzare, perché infondo era simile al tuo.

Quel giorno che arriverà ti farò entrare nella mia casa e ti mostrerò i due grandi quadri che mi hai regalato, appesi davanti ai miei occhi da appena un mese e che da oggi sono ciò che mi resta di te: dei papaveri che tu hai dipinto per me, pensando a me, per dirmi grazie di esserci stata, un tempo. Per farmi una sorpresa dopo cinque anni dalla nostra malattia, che abbiamo condiviso e superato insieme. Un mese fa, Paola. Quasi tu avessi saputo che sarebbe stato “per sempre”, un grazie quotidiano che mi hai voluto lasciare quasi avessi saputo che da quel sonno non ti saresti risvegliata più. Un grazie che io ho ricambiato distrattamente con un bacio da nulla, un niente rispetto a quello che sento di doverti ora. Ora li osservo i tuoi papaveri e non sai quanto mi dispiace di non averti mai fatto vedere quanta luce essi portano nella mia stanza. Penso alla tua bambina che già sente il dolore dell’assenza della tua voce. A tuo marito che ti ha salutata prima di quella operazione, che avrebbe dovuto regalarti un altra volta un nuovo cielo, con la promessa di un felice Natale e che oggi vede la tua vita riposarsi muta sopra un letto di ospedale. Paola: penso anche a noi e mi spiace, non sai quanto. Ci siamo toccate così tante volte negli anni della mia crescita, ci siamo avvicinate nei mesi del nostro comune dolore e delle nostre simili paure e della nostra uguale fede nella vittoria, ci siamo allontanate per concentrarci ognuna nella sua personale risalita: dopo cinque anni mi hai ricordato che un legame suggellato dalla compassione e dalla comprensione resta indissolubile per sempre. Lo hai fatto dipingendo per me, dedicandomi ore della tua preziosa vita, dei papaveri di un rosso amore su un giallo allegria. Così mi hai resa speciale per te e ti ringrazio perché solo ora, lo ammetto, lo capisco così bene.


So che nel tuo silenzio tu hai deciso di riposarti. So che eri stanca di lottare. So che avresti voluto vivere…spero con tutto il cuore che il miracolo accada e che il dio in cui tanto tu credi ti riservi ogni bene.

Ciao Paola, benvenuta a casa mia. Hai visto i tuoi papaveri, che luce che fanno?

(Il papavero anticamente era il simbolo del sonno. Il dio Morfeo veniva infatti rappresentato con un fascio di papaveri fra le braccia. E' simbolo di oblio, di sonno dei sensi e del cuore. Oggi il significato del papavero è quello della consolazione, ma anche quello della semplicità